01 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot

E’ da pochi giorni uscito nelle sale un film italiano che parla di supereroi. Un opera prima per il regista e un nuovo tentativo per il cinema di genere (superoistico) in Italia, dopo il mezzo passo falso de “Il ragazzo invisibile” di Salvatores (che ancora non sono riuscito a vedere), sempre a detta della massa che esprime giudizi sul web e dalla critica specializzata.


Certo il film del regista Mainetti (autore del corto osannato da tutti “Basette” incentrato più o meno su Lupin, quello del cartone, ) ha un titolo azzeccato.
Forse un po’ specchietto per le allodole se vogliamo, ma col senno di poi e con il peso dei “come” e dei “perché” sull’uso del vecchio personaggio dei cartoni naganiani, la scelta era l’unica possibile anche per portare al cinema tutta una generazione di quarantenni, la nostra, al cinema; forse anche qualcuno di più vecchio che l’ha vissuta da lontano, essendo fuori target d’età, ma che sapeva bene negli anni 80 chi era Hiroshi shiba o cos’era il cartone Jeeg Robot d’acciaio.

Quindi una presa in giro? Assolutamente no. Un cinecomics? No. Un film superostico certo, non si può negare, ma qui si è presa una storia drammatica con personaggi borderline, nella periferia di Roma che sopravvivono al quotidiano con delinquenza spiccia, fatta di furtarelli e rapine, per dire qualcosa di più. La vita quotidiana di Enzo Ceccotti (cognome non casuale per chi mastica fumetto indipendente italiano) interpretato da un superbo Santamaria. Asociale e dalla mentalità rozza e superficiale. Un uomo che si nutre solo di budini alla vaniglia e guarda dvd porno.
In una giornata come tante in un inseguimento a piedi di due poliziotti in borghese, immergendosi nel Tevere per sfuggire all’arresto, come nella migliore tradizione marveliana, finisce in un bidone di sostanze tossiche radioattive per risvegliarsi il giorno dopo, trascorsa una notte di malessere con una forza sovrumana.


Con gli eventi che si accavallano e precipitano, incontrando una ragazza, l’esordiente Ilenia Pastorelli davvero strepitosa,  a cui rimarrà legato sua malgrado, scoprendo nel mentre le sue nuove capacità, la prima cosa che fa è usare la forza per rubare un bancomat. Ma sarà proprio lei a fargli capire con la sua purezza d’animo tipica di chi ha un trauma psichiatrico, che deve usare i suoi poteri per gli altri come aveva fatto con lei salvandola. Sarà lei a fargli scoprire, con la sua ossessione per Jeeg, la morale da supereroe fino a quando l’evento traumatico verso metà del film non gli farà capire che solo lui può aiutare gli altri. Ma ogni supereroe che si rispetti ha bisogno della sua nemesi, e in questo film spicca Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli in maniera magistrale, personalmente il miglior personaggio del film e la migliore interpretazione. 


Una figura eccessiva quasi ridicola quanto spietata, un joker “de no artri”, in fissa con l’idea di fare il grande passo verso la notorietà nella criminalità che conta. Che si mischia con squali (la criminalità napoletana) più grandi di lui che non esitano prima a umiliarlo e poi a punirlo fino a buttarlo nel fiume proprio li dove Enzo ha acquisito i suoi poteri e dal quale ne esce sfigurato e con la stessa forza del protagonista.
Il finale è una corsa letterale contro il tempo in cui i due si scontrano e dove il nostro eroe ormai consapevole fa un gesto che lo nobilita davanti a tutta la comunità anche se viene dato per morto.
E con la voce del cronista del tg, fuori campo, che si interroga sul ruolo di un eroe, che vigila su tutti potrebbe invogliarci ad essere migliori, si chiude con un fermo immagine evocativo, il film con il finale che fa palpitare il cuore di ogni vecchio lettore di comics o appassionato dei vecchi robot a cartoni della tv.


Un film diretto in maniera originale, con inquadrature spettacolari, un gusto tutto italiano a quella che si potrebbe definire “la scuola americana”. Una roma con la sua periferia scostante e alienante quasi un personaggio in più del film. Utile e necessaria cornice al film ma che da anche il quid ai personaggi che la vivono. In più spicca tra una scena e l’altra una notevole colonna sonora: i pezzi originali descrivono ottimamente il senso di solitudine e vuoto interiore dei protagonisti da un lato e i pezzi pop anni 80 danno un senso naif ma anche un rimando all’epoca in cui è radicata la mitologia pop della nostra generazione.
In realtà questo film riesce a dare un’impronta tutta italiana senza cadere nel ridicolo o nella parodia a un genere che da sempre è appannaggio hollywoodiano senza soffrire di quel complesso di inferiorità che hanno tanti film indipendenti quando si cimentano in un genere poco battuto in Italia. Un film che ricorda tante cose già fatte ma che rimane unico per il panorama italiano. Forse un inizio per un nuovo modo di fare film, cinema di genere.

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